ROMOLO, IL PRIMO RE DI ROMA DI ORIGINI SABINE

Romolo, il primo re di Roma di origini Sabine

Secondo la tradizione, Roma fu governata da sette re, al primo dei quali, Romolo, venne attribuita la fondazione della città e il suo popolamento. Nato dall’unione della vestale Rea Silvia e del dio Marte, ("Romanum imperium [...] a Romulo exordium habet, que Rheae Silviae, Vestalis virginis, filius, quantum putatus est, Martis cum Remo frate uno parto editus est. Is cum inter pastores latrocinaretur, decem et octo annos natus urbem exiguam in Palatino monte constituit, XI Kal. Maias, Olympiadis sextae anno tertio, post Troiae excidium, ut qui plurimum minimunque tradunt, anno trecentesimo nonagesimo quarto" Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, in E. di Marzo, Aere perennius , Torino 1943, pp. 151-152.), fu abbandonato insieme al fratello Remo, sul fiume Tevere dallo zio Amulio, un usurpatore che aveva detronizzato il fratello maggiore Numitore e fatto entrare la figlia Rea Silvia tra le Vestali per impedire ogni pericolo di discendenza). La cesta contenente i due bambini fu trasportata dalla corrente del fiume fino ai piedi del Palatino, dove una lupa, li nutrì, fino quando non vennero raccolti da due pastori. Divenuti adolescenti, Romolo e Remo vendicarono Numitore e fondarono essi stessi una nuova città.

Sul terreno su cui sarebbe nata Roma, i due fratelli trassero gli auspici: nacque una lite tra i due, nel corso del quale Remo trovò la morte. Romolo tracciò un solco intorno al Palatino: era nata la Roma Quadrata.

(AA.VV. Dizionario della civiltà romana, Roma 1990, p. 174.)

Come sia venuto fuori il nome di Roma nessuno ha mai potuto affermarlo con certezza assoluta [...]. La versione più accreditata rimane tutt'ora quella che lo fa derivare dal Tevere. Gli antichi sabini, in gergo pelagico, chiamavano il fiume Rumon. Da Rumon a Roma il passo è breve.

(N. Vicari , Cures madre e maestra di Roma , 1978, p. 58.).
Romolo prima di tutto fortificò il monte Palatino, dov’era stato allevato; sacrificò ad Ercole secondo il rito dei Greci, agli altri dei secondo il rito degli Albani. Compiuta secondo i riti la sacra cerimonia, Romolo si preoccupò di popolare la sua città.

Offrì perciò asilo e protezione a tutti quelli che , per una ragione o per l’altra, non potevano più vivere dove si trovavano: malandrini, briganti, debitori che non pagavano, gente che era odiata o perseguitata, ecc…

(G. Spini - U. Olobardi, Le civiltà antiche , Roma 1961, p. 134.)
Questa gente venne accolta nel sito che ora a chi scende dai due luchi (luci erano chiamate le due cime del Campidoglio coperte di boschi) e chiuso da siepe; seguendo così l’antica usanza dei fondatori di città, che, invitando presso di loro turbe oscure, poi spacciavano che la loro città era nata spontaneamente dalla terra. Intanto accrebbe in tutto la maestà della sua persona, ma specialmente col prendersi a guardia dodici littori. Vi è chi pensa che egli scegliesse un tal numero dagli uccelli che gli avevano annunziato il regno. Elesse cento Senatori, sembrando che tal numero bastasse; o che soli cento fossero atti ad esser Padri. Padri certo poi furono questi chiamati in segno di onore, e patrizia la loro discendenza. Era oramai cresciuto lo stato di Roma a tanta forza, che poteva tenersi al pari con qualunque delle città confinanti; ma tale grandezza per mancanza di donne, avrebbe forse durato non oltre l’età di un uomo, non avendo i Romani (per mancanza di donne) speranza di prole. Romolo allora, per consiglio dei Padri, spedì legati alle genti d’intorno, a chiedere alleanza e parentela con questo nuovo popolo, dicendo che le città, come tutte le altre cose, sorgono da bassi principi; ma poi quelle si elevano a grande potenza ed a grande fama, cui sovvengano i Numi ed il proprio valore.
Ma non si ebbe nessun risultato, quindi Romolo ricorse all'astuzia, allestì, con il proposito, i giuochi annuali di Nettuno Equestre, e li chiamò Consuali (Livio I.9). Fece indi bandire lo spettacolo ai popoli confinanti, e vi si pose il maggior apparato che si sapesse o si potesse fare a quei dì, per far la cosa molto pomposa e degna di aspettative. Gran folla vi attrasse e in modo particolare i più vicini, come i Ceninesi, i Crustumini, mossi anche dalla curiosità di vedere la nuova città. Accorsero dai centri vicini (Caenina, Crustumerium, Antemnae) e:

venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini (Livio I.9).

Cfr. Commotis bellis propter raptarum iniuriam Caeninenses vicit, Antemnates, Crustuminos, Sabinos, Fidenates, Veientes, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita , op. cit., p. 153.

Invitati ospitalmente per le case, veduto il sito, le mura e la città fitta di fabbricati, non si davano pace del come in così breve tempo Roma si era così tanto ingrandita. Venuto il momento dello spettacolo scoppiò la violenza; e, dato un segnale, i giovani romani correvano chi qua e chi là a rapir le donzelle. Le più ambite furon rapite dal primo cui s'avventava su di esse; di rara bellezza, destinate ai più autorevoli fra i Padri, condotte alla loro casa da uomini della plebe a ciò comandati. Scompigliato lo spettacolo dalla paura, fuggiti mesti i genitori delle donzelle, imprecando alla violazione dei diritti di ospitalità ed invocando il dio, alla cui festa e ai giuochi erano intervenuti, perché traditi sotto il manto della religione e della fede. Nè avevano le rapite uno sdegno minore o una speranza di sè; se non che Romolo girava intorno di persona, dicendo a loro che per l'alterigia dei padri questa spiacevole cosa era avvenuta; che i loro padri avevano negato di apparentarsi con i vicini; ma promettendo a esse che sarebbero quando fatte spose la comunione di tutti i beni, di tutti i diritti, e (ciò non ha l'umano genere più dolce cosa) della figliolanza; purchè mitigassero l'ira, e concedessero il cuore a coloro, a cui la sorte aveva concesse le persone. Le carezze degli sposi, che scusavano il fatto con la passione e l'amore e già le rapite si erano del tutto rassegnate; se non che i loro genitori in arnese di lutto, piangenti eccitavano i concittadini. Nè contenevano in patria gli sdegni loro, ma d'ogni parte si stringevano intorno a Tito Tazio re dei Sabini, e a lui, che altissima fama aveva in quelle contrade, convenivano ambascerie. I Sabini, subito nulla fecero cedendo ad ira o a passione, ma assalirono prima di darne avviso o indizi. Si aggiunse all'accorgimento anche l'inganno. Spurio Tarpeo aveva in custodia la rocca di Roma. Tazio corruppe con l'oro sua figlia giovinetta, che per caso uscita fuor della cinta ad attingere acqua per i sacrifizi: la convinse che accogliesse i suoi in armi entro la fortezza. Appena introdotti, essi poi fecero finta di soffocarla sotto gli scudi, per far credere di aver presa la rocca con la viva forza e non con il tradimento della fanciulla. Si aggiunge al racconto che, usando i Sabini portare nel braccio maniglie di oro di gran prezzo, ed anelli gemmati di grande bellezza, la donzella avesse pattuito ciò che portavano nella sinistra, e ch'essi, invece degli aurei doni, le gettassero addosso gli scudi come ingrato ringraziamento. Comunque sia, tennero i Sabini la rocca, e il dì seguente, avendo l'esercito romano in ordinanza occupato tutto il piano tra il colle Palatino e il Capitolino, tardando quelli a scendere a valle, i Romani, stimolati dall'ira e dalla voglia di ricuperare la rocca, incominciarono a salire l'altura.

Mettio Curzio, condottiero dei Sabini, si mise a correr giù dalla rocca, e incalzava i Romani per tutto quanto era lo spazio del Foro, e non lontano dalla porta del Palatino, gridando:
Abbiamo vinto gli ospiti perfidi, i nemici imbelli; che non conoscono altro che rapir donzelle, altro che combattere come veri guerrieri.

Mentre così Curzio e i suoi si magnificavano, Romolo gli fu sopra con un manipolo di giovani dei più baldi e in breve fu l'iniziò di un acceso scontro di armi. Allora le donne sabine, il cui oltraggio aveva fatto nascere la guerra, con i capelli sparsi e stracciandosi le vesti, vinta la femminile timidezza, entrate dal fianco dei combattenti, osarono lanciarsi in mezzo ai giavellotti, a spartire le squadre nemiche, a spartire gli sdegni, scongiurando sia i padri sia i mariti a non imbrattare suoceri e generi di sangue, e non macchiare di parricidio il frutto in grembo, figli degli uni, e nipoti degli altri.
Se tanto vi rincresce di avere fra di voi parentela con loro, allora volgete le vostre ire contro di noi: noi siamo la cagione della guerra, la cagione delle ferite e della morte degli sposi e dei padri. Meglio per noi morire che vivere senza l’uno o l’altro, come vedove oppure come orfane.

La scena commosse i soldati e i capi: si fece silenzio e una quiete improvvisa. Poi si alzarono i comandanti a stringere alleanza, né solamente conclusero la pace, ma di due fecero un popolo solo, accomunarono il regno e trasferirono a Roma tutta la sovranità. Cresciuta così del doppio la città, per concedere pur qualcosa ai Sabini, si chiamarono [Curiti o] Quiriti i Romani, dal nome di Cures. Nello stesso tempo si arruolarono tre centurie di cavalleria, una dei Ramnesi, così chiamata da Romolo, l’altra Tiziesi da Tito Tazio; incerta è la ragion dell’origine e del nome di quella dei Luceri. Da qui in poi ebbero i due re un comando non comune, ma concorde. In seguito Romolo, rimasto, dopo la morte di Tito Tazio solo re di Roma, regno per molti anni ancora, e condusse guerre fortunate contro i Fidenati ed i Veienti. Mentre un giorno Romolo teneva adunanza del popolo nel Campo presso la palude della Capra, per passare in rassegna l’esercito, scoppiò all'improvviso un temporale con grande fragore di tuoni, che fra dense pioggia e nuvole ravvolse il re, fin da levarlo alla vista degli astanti; Romolo non fu più visto nemmeno in terra. Calmata finalmente la paura e risorto da un così torbido giorno la luce tranquilla e serena, poichè la gioventù vide vuoto il seggio reale, benché non negasse fede ai patrizi che gli stavano prima a fianco, che dicevano essere stato Romolo rapito in alto dalla procella. Pur colpiti da questa disgrazia e resi orfani del re, si tenne un mesto silenzio. Indi cominciarono prima pochi, poi tutti insieme a salutar Romolo dio nato di dio, re e padre di Roma.

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